La Suprema Corte si è così pronunciata: “la doglianza dei ricorrenti sulla questione della attribuzione della posizione di garanzia, la quale viene da ciascuno di essi rimpallata all’altro diverso da sè, si rivela manifestamente infondata“.
Nella fattispecie, i giudici di primo e secondo grado hanno incluso nel giudizio di responsabilità penale sia il legale rappresentante della società, sia il socio designato alla attuazione delle norme antinfortunistiche, sia il tecnico che aveva il compito di controllare quella attuazione nell’ambito delle specifiche attività aziendali, all’interno delle quali era maturato l’evento infortunistico, avendoli correttamente ritenuti compresi tra i destinatari delle norme dettate in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro dalla legge, per la decisiva ragione che ciascuno di essi era perfettamente al corrente delle pericolose prassi operative invalse per lo smontaggio e la posa a terra dei grossi tubi presenti nella realtà aziendale e nessuno di essi aveva concretamente fatto qualcosa – pur avendo rispettivamente l’obbligo di conoscerlo, di segnalarlo e di rimuoverlo – per eliminare il pericolo per l’incolumità dei lavoratori insito nelle citate prassi.
Da ciò, la logica conclusione che ciascuno degli imputati non può considerarsi esente da responsabilità“.
Ed ha aggiunto, in ordine al preteso contributo causale del lavoratore: “nè a diversa conclusione può addivenirsi, seguendo la tesi difensiva secondo cui alla persona offesa sarebbe stata delegata l’osservanza delle norme a tutela della sua salute, sicchè alla stessa dovrebbe imputarsi la responsabilità per l’infortunio patito, trattandosi di una tesi contraria alla ratio legis, la quale non prevede che l’attuazione degli obblighi in materia di sicurezza nell’ambiente di lavoro sia delegabile al lavoratore, non potendosi in capo a quest’ultimo riconoscersi al contempo la qualità di debitore e creditore dei doveri di sicurezza a garanzia della salute di sè medesimo.”
AG