Uno dei motivi alla base del forte incremento del mercato delle demolizioni navali negli ultimi anni, è da ricondurre essenzialmente alla situazione di perdurante stagnazione in cui versa il comparto del trasporto marittimo, con noli permanentemente bassi e la concomitante presenza di un eccesso di offerta (di stiva), a fronte di una domanda ancora insufficiente.
Per molte società armatoriali, risulta dunque più conveniente disfarsi delle imbarcazioni meno competitive, vendendole ai demolitori, piuttosto che utilizzarle senza alcun margine di guadagno.
Passando ad analizzare il lavoro dello ship-breaker (demolitore navale) in Asia del Sud, occorre segnalare che esso è considerato tra i più pericolosi in assoluto, soprattutto a causa delle modalità con cui viene eseguito.
La deregolamentazione lavorativa, i bassi salari e altri fattori contingenti, hanno favorito nel corso del tempo, il radicamento di tale pratica, nelle zone più povere di questa regione.
Attualmente, circa l’80% della flotta mondiale destinata al disarmo, viene smantellata in fatiscenti cantieri navali disseminati lungo le spiagge del Bangladesh, India e Pakistan.
In questi luoghi non è raro imbattersi in maestranze, costituite prevalentemente da migranti sfruttati e finanche minori, che prestano la loro attività per pochi dollari al giorno e in totale violazione delle più elementari norme di sicurezza ambientale e del lavoro.
Durante lo svolgimento di tali operazioni infatti, spesso si verificano fuoriuscite di molteplici sostanze tossiche (in conseguenza della scomposizione delle navi) che finiscono con impattare negativamente sugli ecosistemi circostanti e le comunità locali.
Sono inoltre molto frequenti casi di infortuni ed incidenti anche di una certa rilevanza, connessi alle condizioni di estrema precarietà ed improvvisazione che caratterizzano siffatto mestiere.
Si muore rimanendo schiacciati da tonnellate d’acciaio, precipitando da grandi altezze, investiti da esplosioni di materiali infiammabili e/o a seguito di gravi patologie correlate all’esposizione a polveri e fibre d’amianto, massicciamente presenti sulle navi, specialmente quelle più datate.
Purtroppo ad alimentare questo triste mercato, concorrono sovente anche alcune importanti compagnie di navigazione, le quali, disattendendo regolamenti internazionali e normative inerenti i dritti umani, continuano imperterrite a praticare la rottamazione meno onerosa (lo spiaggiamento), anteponendo cinicamente il vantaggio economico all’indiscutibile primato dell’individuo.
In questo quadro sarebbe pertanto auspicabile un intervento meno indulgente da parte dei vari organismi delle Nazioni Unite, atto a scoraggiare il ricorso alla distruzione illegale, prevedendo ad esempio un regime sanzionatorio più stringente nei confronti di chi ancora oggi, con troppa facilità riesce ad eludere sistematicamente le disposizioni di legge, come
avviene nel caso dell’utilizzo di bandiere di comodo (sistema che prevede oneri di registrazione più bassi, tassazione inferiore e meno vincoli in materia di leggi su lavoro e sicurezza).