Amianto a Balangero: la miniera nelle parole di Primo Levi e Italo Calvino

Fonte: INAIL

Amianto a Balangero: la miniera nelle parole di Primo Levi e Italo Calvino
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Un racconto autobiografico e un reportage giornalistico: molto prima del 1992 – anno in cui la legge ha messo al bando la fibra killer – due fra i maggiori narratori del Novecento colsero con la loro sensibilità la violenza mortale dell’asbesto.
Scenario dei loro scritti la cava piemontese, colta come un girone dantesco
L’amianto, il lavoro e le diverse esperienze vissute nella miniera di Balangero affrontati con intensità e in pagine appassionate: Primo Levi e Italo Calvino, tra i narratori di maggior rilievo del Novecento, ne parlarono in due opere pubblicate nel 1975 e nel 1954.

Levi: i giorni a Balangero come esperienza di vita.
Quelli rievocati da Primo Levi nel capitolo “Nichel” de “Il sistema periodico” sono pochi giorni del novembre 1941 quando, neolaureato al Politecnico – su incarico di un tenente del Regio Esercito – si trovò a lavorare presso quella che, negli anni seguenti, sarebbe diventata la più grande miniera d’amianto in Europa.
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Quella cappa d’amianto come “neve cenerina”.
I pochi giorni passati a Balangero rimangono impressi per sempre nella coscienza di Levi, che coglie con trepidazione autentica lo sforzo terribile dei minatori.

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Calvino: il reporter che descrisse lo sciopero alla cava.
Totalmente diverso – almeno nella forma – è l’approccio di Calvino, che arriva nella miniera piemontese come redattore del quotidiano “l’Unità”, inviato a seguire uno sciopero di 40 giorni dei lavoratori della cava dopo la soppressione, da parte dell’azienda, di un premio di produzione.
“La fabbrica nella montagna” è il reportage che egli realizzò (probabilmente anche spinto dalle suggestioni dell’amico Levi): pagine di scrittura emblematica dove gli eventi descritti sono colti ben oltre la loro portata storica e diventano, alla fine, materia di denso valore esistenziale
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Ai pozzi il nome dei minatori che vi erano caduti dentro
Calvino coglie con emozione il dramma degli operai costretti a vivere e a morire nella cava, e alla cui memoria venivano intitolati i pozzi nei quali erano caduti. Come il povero Bellezza “che di in cima al pozzo scivolò e d’un volo, senza che il ciglio di un gradino lo fermasse, precipitò sul fondo frantumandosi anche lui come l’asbesto diroccato dal suo piccone, e così gli altri quindici morti di infortunio in trentacinque anni di storia della cava”.
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Il grigio polverone d’asbesto della cava che dove arriva brucia, foglie e polmoni”.
Anche nella cronaca di Calvino – come nella narrazione di Levi – emerge, a un certo momento, l’amianto, rappresentato come una presenza onnicomprensiva – soffocante e dolorosa – e dallo scontro per il salario l’attenzione del cronista si sposta inevitabilmente su quella nube opprimente, che lo stile limpido e incisivo dello scrittore descrive come viva, malvagia, famelica. “Ma non ce n’è di lepri nel bosco, non crescono funghi nella terra rossa dei ricci di castagno, non cresce frumento nei duri campi dei paesi intorno – scrive Calvino – c’è solo il grigio polverone d’asbesto della cava che dove arriva brucia, foglie e polmoni, c’è la cava, l’unica così in Europa, la loro vita e la loro morte”.
Calvino scriveva queste parole nel 1954.
La legge italiana avrebbe messo al bando l’asbesto 38 anni dopo.

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