È per questa ragione che la Cassazione, con la sentenza 38129/2013, ha reso definitiva una condanna per omicidio colposo nei confronti di un datore di lavoro pugliese, colpevole di non avere vigilato sulle condizioni nelle quali un lavoratore stagionale, poi deceduto, si era messo al lavoro.
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Come ricostruisce la sentenza della Quarta sezione penale, la vittima, lavoratore stagionale presso una cooperativa sociale nel brindisino, nel 2004 era caduto dentro una vasca piena di mosto ed era morto in seguito all’insufficienza respiratoria acuta causata dalla permanenza in un ambiente senza ossigeno.
Nel sangue della vittima era stato trovato un tasso di alcool compatibile con uno “stato di ubriachezza patologica”.
Da qui l’inchiesta sul datore di lavoro condannato per omicidio colposo dalla Corte d’appello di Lecce, nell’aprile 2012.
Inutile il ricorso del datore di lavoro in Cassazione che, tra l’altro, ha contestato la sua responsabilità in relazione allo stato di ubriachezza del lavoratore.
La Cassazione ha bocciato la tesi difensiva e ha evidenziato che il datore di lavoro era chiamato a “prevenire e fronteggiare il comportamento imprudente del lavoratore“.
La Suprema Corte, inoltre, ha fatto notare come “la condizione di ubriachezza del lavoratore sul luogo di lavoro non è circostanza eccezionale e quindi non prevedibile dal datore di lavoro, con l’ulteriore effetto della riconducibilità al medesimo dell’infortunio occorso, pure in presenza di uno stato di ebbrezza alcolica del lavoratore rimasto vittima” di un incidente.
La Cassazione ha inoltre osservato che la botola nella quale era caduto il lavoratore non era stata nemmeno chiusa con l’apposita griglia.