La conferma arriva dai risultati diffusi il 23 aprile 2018 da Greenpeace insieme all’Istituto di Scienze Marine del CNR di Genova (ISMAR) e all’Università Politecnica delle Marche (UNIVPM): i dati raccolti sono frutto dei campionamenti nelle acque italiane realizzati durante il tour “Meno Plastica più Mediterraneo” della nave Rainbow Warrior di Greenpeace al largo del Mediterraneo la scorsa estate.
I risultati mostrano l’enorme presenza di microplastiche anche nel Mediterraneo, con valori paragonabili a quelli che si trovano nelle “zuppe di plastica” presenti nei vortici oceanici. L’aspetto che preoccupa maggiormente è che concentrazioni tanto elevate di microplastiche siano evidenti anche nel Mediterraneo, un bacino semi-chiuso fortemente antropizzato, con un limitato riciclo d’acqua che ne consente l’accumulo.
La campagna di Greenpeace ha permesso di analizzare campioni di acqua di mare prelevata in 19 stazioni lungo la costa italiana, da Genova ad Ancona. I prelievi sono stati effettuati sia in zone sottoposte a un forte impatto antropico (foci di fiumi e porti) che in aree marine protette.
Immaginando di riempire due piscine olimpioniche con l’acqua delle Isole Tremiti e l’acqua di Portici: nella prima ci si troverebbe a nuotare in mezzo a 5.500 pezzi e nella seconda in mezzo a 8.900 pezzi di plastica.
L’analisi ha permesso di identificare 14 tipi di polimeri. La maggior parte delle plastiche ritrovate è fatta di polietilene, ovvero il materiale con cui viene prodotta la maggior parte del packaging e gli imballaggi usa e getta.
I dati raccolti confermano che i mari italiani stanno letteralmente soffocando sotto una montagna di plastica e microplastica, per lo più derivante dall’uso e dalla dispersione di articoli monouso. Per invertire questo drammatico trend bisogna intervenire alla fonte, ovvero la produzione. Il riciclo non è la soluzione e sono le aziende responsabili che devono farsi carico del problema, partendo dall’eliminazione della plastica usa e getta.