Il 13% della popolazione italiana costretto a sopravvivere con 500-600 euro al mese.

Questo dato emerge dal Rapporto sulla povertà e l’esclusione sociale in Italia, presentato mercoledì 15 ottobre a Roma da Caritas Italiana e Fondazione Zancan di Padova in occasione della ricorrenza della Giornata mondiale di lotta alla povertà.

Nella scheda di sintesi del Rapporto “Ripartire dai poveri- Rapporto sulla povertà ed esclusione sociale in Italia” – che riportiamo nel link -si legge, fra l’altro, che da decenni il fenomeno “povertà” è in stallo: povero è, ancora oggi, il 13% della popolazione italiana, costretto a sopravvivere con meno di metà del reddito medio italiano, ossia con meno di 500-600 euro al mese.

Accanto ai poveri, poi, ci sono i “quasi poveri”, ossia persone che sono al di sopra della soglia di povertà per una somma esigua, che va dai 10 ai 50 euro al mese: con riferimento all’Europa dei 15, l’Italia presenta una delle più alte percentuali di popolazione a rischio povertà.

Il Rapporto 2007 sulla povertà e l’esclusione sociale nel titolo si poneva la domanda: Rassegnarsi alla povertà?. Il Rapporto 2008 vuole dare un risposta: “Ripartire dai poveri, ma da quali poveri ripartire?” Quali sono le situazioni cui va data priorità ? Il nuovo Rapporto Caritas-Zancan individua due fasce di popolazione maggiormente in difficoltà: le persone non autosufficienti e le famiglie con figli.

Nel nostro Paese – si legge nel Rapporto 2008 – risulta povero il 30,2% delle famiglie con 3 o più figli, e il 48,9% di queste famiglie vive nel Mezzogiorno (al 2006, ultimi dati disponibili). Si tratta di percentuali molto elevate: avere figli in Italia comporta un maggiore rischio di povertà, con una penalizzazione non solo per i genitori che si assumono questa responsabilità ma soprattutto per i figli, costretti ad una crescita con meno opportunità.

Eppure in altri Stati non accade così. Ad esempio, effettuando un confronto con la Norvegia, si evidenzia che in quel Paese non solo vi è un tasso di povertà notevolmente inferiore, ma anche una relazione esattamente opposta, ovvero più bambini si hanno (a meno di non averne più di tre), più basso è il tasso di povertà.

Per quanto riguarda poi la povertà degli anziani soli e/o non autosufficienti, si registra un aumento nelle regioni del Nord, in controtendenza con il resto del Paese: dal 2005 al 2006 l’incidenza di povertà relativa (totale di poveri sul totale dei residenti) in persone sole con 65 anni e più è passata da un valore di 5,8 ad un valore di 8,2 (ultimi dati disponibili).

Nell’Europa dei 15, l’Italia, dopo la Grecia, è il Paese in cui i trasferimenti sociali hanno il minor impatto nel ridurre la povertà: abbattono la quantità di popolazione povera solo di 4 punti percentuali. Per esempio, Svezia, Danimarca, Finlandia, Paesi Bassi, Germania e Irlanda riescono a ridurre del 50% il rischio di povertà.

Insomma, partendo da un’analisi dell’attuale capacità di risposta del nostro sistema di welfare, in termini sia di spesa sia di tipologie di intervento, il rapporto individua gli strumenti utili per costruire un nuovo e concreto approccio al problema della povertà.

I nodi da sciogliere sono molti, in un sistema che continua a privilegiare i trasferimenti monetari rispetto all’offerta di servizi e ad attribuire gli interventi di sostegno secondo criteri categoriali; un sistema privo di correlazione tra valutazione delle necessità e definizione delle risposte, con un uso inefficiente delle risorse, con disuguaglianze sempre crescenti.

La scommessa consiste nel “ripartire dai poveri”: vale a dire applicare seriamente il principio di equità sociale e di universalismo selettivo, mettendo al centro degli interventi di sostegno le persone più fragili. Offrire risposte adeguate a chi ha bisogno senza aumentare la spesa complessiva per la protezione sociale è una sfida possibile, se i centri di responsabilità interessati – istituzionali e sociali – sapranno affrontare il problema in termini di autentica collaborazione.

(LG-FF)

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