Rapporto ISTAT 2003: un quadro drammatico della situazione del paese

Il 17 maggio scorso, l’ ISTAT ha presentato la dodicesima edizione del Rapporto annuale sulla situazione economica e sociale del paese dal quale emerge che l’ Italia perde colpi.

La fotografia della situazione economica e sociale dell’ Italia è stata sviluppata, in modo impietoso ma su basi rigorosamente scientifiche, nel Rapporto annuale 2003 che è stato presentato il 17 maggio 2004 in Parlamento dal Presidente dell’ ISTAT, Luigi Biggeri. Giunto alla dodicesima edizione, il Rapporto punta quest’ anno la lente di ingrandimento sulle contraddizioni del paese, viste quasi esclusivamente in chiave economica, per poi spaziare nelle contraddizioni della nuova Unione Europea dopo l’ allargamento a 25 Paesi membri dal primo maggio: anche in questo caso, differenze e disomogeneità sono ancora più evidenti in seguito ai nuovi ingressi. Le distanze dell’ Italia rispetto ad alcuni dati risultano sconcertanti: il tasso di occupazione, per esempio, che varia dal 41,8% della Sicilia al 71% della provincia autonoma di Bolzano. Tanto che dalla seconda metà degli anni ’90, segnala l’ ISTAT, sono riprese le migrazioni interne: come avveniva decenni addietro, i lavoratori si spostano dalle regioni meridionali verso le province con alti tassi di occupazione del Nord-Est e del Centro. Per quanto riguarda le imprese, esse non crescono e non fanno ricerca e quindi non fanno innovazione. Gli investimenti per la ricerca sono, infatti, al di sotto della media europea ( lo 0,9% in meno rispetto ai partner UE).E negli ultimi anni sono cresciute ad un tasso molto ridotto ( + 0,5% rispetto ad altri paesi come la Grecia (+15%) e Spagna e Portogallo (+4%). Il rischio di una perdita di competitività per l’ Italia è evidente. Inoltre, lo stato di salute dell’ impresa italiana si conferma affetta da “nanismo” ( le aziende con meno di 10 addetti assorbono il 48,4% dell’ occupazione. Per quanto riguarda i salari, si legge nel Rapporto che nel triennio 2001-2003 ” si assiste ad un rallentamento della dinamica salariale nominale rispetto al quinquennio precedente che in un contesto di lieve accelerazione inflazionistica si ripercuote in una ancora più marcata riduzione del tasso di crescita delle retribuzioni reali”.La distribuzione del reddito presenta disuguaglianze notevoli fra le varie aree del Paese: nel periodo compreso tra il 1995 e il 2002, il reddito disponibile delle famiglie italiane si è concentrato per circa il 53% nelle regioni del Nord, per il 26% nel Mezzogiorno e per il restante 21% nel Centro, e questo nonostante il Mezzogiorno abbia registrato nello stesso periodo una crescita sostenuta del reddito stesso. La disuguaglianza si riproduce nella spesa: nel 2002 era in testa la Lombardia, con 2.276 euro mensili, seguita da Emilia Romagna e Vale d’ Aosta; l’ ultima regione è la Calabria, con 1.314 euro al mese. Le forti disuguaglianze non esistono solo a livello regionale, ma anche tra uomini e donne, giovani e anziani. La crescita dell’ occupazione registrata negli ultimi anni si è tradotta essenzialmente in crescita del lavoro femminile, ma sulle donne continua a pesare in maniera quasi esclusiva il peso della famiglia. Sono le donne a utilizzare in maniera massiccia gli strumenti di flessibilità, a cominciare dal part-time: il 70,4% delle madri che lavora a tempo ridotto dichiara infatti di farlo esclusivamente per badare ai figli. Ma il punto più debole del sistema Italia è quello del crescente impoverimento di alcune fasce di popolazione: circa 190mila pensionati vivono con meno di 400 euro al mese, nonostante risultino beneficiari dell’ aumento delle pensioni minime a 516 euro al mese. Anche la progressiva privatizzazione della sanità acuisce le difficoltà delle fasce più deboli: in 10 anni, dal 1991 al 2001, la spesa sanitaria a carico delle famiglie è passata da 10 a 22 miliardi di euro, mentre quella di competenza pubblica è cresciuta da 47 a 74 miliardi di euro.Secondo l’ Istat, in materia di sanità è in atto una “privatizzazione” del sistema, sia per quanto riguarda l’ erogazione dei servizi che per la spesa sostenuta. Ma anche la dinamica occupazionale ristagna ormai da tre trimestri.

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