Seveso: a 40 anni dall’incidente dell’Icmesa

Il 10 luglio 1976, alle 12.37, nello stabilimento Icmesa di Meda (Mb) esplose un reattore chimico utilizzato nella produzione di diserbanti da cui fuoriuscì una nube tossica con almeno 14 chili di diossina. Riportiamo l’articolo de “Il Manifesto” che cita interventi tenuti al convegno organizzato il 6 maggio 2016 dalla nostra Associazione e uno speciale tratto dai materiali d’archivio del Corriere della Sera.

Il 10 luglio del 1976, alle 12.37, nello stabilimento Icmesa di Meda, un reattore chimico utilizzato nella produzione di diserbanti andò in avaria ed esplose. Una nube tossica contenente un alto tasso di diossina fuoriuscì dal reattore e fu spinta dal vento verso sud-est. Diverse cittadine della Brianza ne furono investite, ma il comune più colpito fu quello di Seveso, confinante con Meda. La stampa diede notizia dell’incidente solo una settimana dopo.

Quasi 700 persone residenti nell’area più contaminata furono sfollate e poterono tornare nelle proprie case solo a distanza di oltre un anno. Una quarantina di famiglie, invece, persero le loro case, che furono distrutte e ricostruite negli anni successivi.
L’area più vicina all’incidente fu dichiarata inaccessibile e bonificata interamente. Oggi è coperta da un bosco di querce.

La Givaudan che controllava l’Icmesa indennizzò cittadini e istituzioni per un totale di circa 300 miliardi di lire. Dei 5 dirigenti inizialmente denunciati, nel 1986 solo Jorg Sambeth e Herwig von Zwehl furono condannati rispettivamente a un anno e mezzo e due anni di reclusione.

«Voglio portare la testimonianza di una città che ha reagito e guarda al futuro in modo positivo e che sulla base della memoria di quell’evento porti a un riscatto, progettando azioni concrete che facciano di Seveso una città di riferimento nel campo ambientale». Queste le parole del sindaco di Seveso Paolo Butti al convegno nazionale «A 40 anni dall’incidente dell’Icmesa di Seveso: dal disastro alla sicurezza», organizzato dall’Associazione Ambiente e Lavoro il 6 maggio scorso alla Camera del Lavoro di Milano.

Quattro decenni sono un tempo sufficiente per un bilancio degli errori compiuti allora e delle loro conseguenze. Il gruppo di ricerca diretto da Pier Alberto Bertazzi e Angela Pesatori dell’Università di Milano ha condotto in questi quarant’anni diversi studi epidemiologici sulle ricadute sanitarie del disastro di Seveso, nonché sull’espressione genica nelle cellule del sangue su soggetti umani esposti alla diossina in collaborazione con il National Cancer Institute statunitense. Al convegno, Bertazzi ha presentato alcune conclusioni di questi lavori che sottolineano l’importanza della capacità di gestire – e la responsabilità di prevenire – il rischio in situazioni di emergenza.

Dal 1976 al 2013, nelle zone limitrofe all’incidente non si è riscontrato un aumento della mortalità generale o dell’incidenza di tumori maligni. Eppure, nei primi anni si erano osservati aumenti di decessi dovuti a patologie cardiovascolari e respiratorie che possono essere interpretati non soltanto come effetto della diossina, ma anche dell’estremo disagio cui la popolazione è stata costretta a vivere dopo l’accaduto.

I venti casi in più di neoplasie ematologiche rispetto alle attese, e alcuni casi di tumore alla mammella e al colon retto e di diabete, inoltre, confermano quanto già si sapeva sulla tossicità della diossina: si tratta di aumenti indicativi che, in assenza di indagini adeguate, probabilmente sarebbero passati inosservati.

Oggi, anche grazie alle direttive comunitarie per la prevenzione degli incidenti industriali rilevanti, «Seveso I» (recepita in Italia con il DPR 175/88) e «Seveso II» (D. Lgs. 334/99) vi sono presupposti oggettivi per la prevenzione e il controllo sanciti dalla legge, come trasparenza e criterio di proporzionalità del rischio.
D’altro canto, fa riflettere la diversità nell’applicazione delle norme a livello regionale e nazionale.
La direttiva comunitaria «Seveso III» (D. Lgsl.105/2015) istituisce un nuovo regime di controlli sul piano regionale e nazionale. Ma non è chiaro come potranno essere garantiti in mancanza di investimenti specifici.

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