Cassazione civile – In caso di demansionamento è legittima la richiesta di risarcimento anche senza mobbing

La Corte di Cassazione con la sentenza n. 22635 del 5 novembre 2015 ha stabilito che è legittima la richiesta di risarcimento del danno biologico da parte di un lavoratore sottoposto a demansionamento professionale anche in assenza di mobbing.

La Corte di Cassazione in questa sentenza ha “ritenuto compresa nella domanda di risarcimento dei danni da preteso mobbing anche quella, di portata e contenuto meno ampio, di risarcimento dei danni da dequalificazione professionale, conseguente allo stato di inattività o di scarsa utilizzazione del lavoratore.”

Ha inoltre ricordato che “il mobbing è una figura complessa che, secondo quanto affermato dalla Corte costituzionale e recepito dalla giurisprudenza di questa Corte, designa un complesso fenomeno consistente in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all’obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo (vedi per tutte: Corte cost. sentenza n. 359 del 2003; Cass. 5 novembre 2012, n. 18927). Ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo devono quindi ricorrere molteplici elementi: a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio – illeciti o anche leciti se considerati singolarmente – che, con intento vessatorio, siano stati posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psicofisica e/o nella propria dignità; d) il suindicato elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi (vedi: Cass., 25 settembre 2014, n. 20230; Cass. 21 maggio 2011, a 12048; Cass. 26 marzo 2010, n. 7382).”

La Suprema Corte ha infine affermato che “esclusa la sussistenza dell’intento vessatorio e persecutorio, rimane giuridicamente valutabile, nell’ambito dei medesimi fatti allegati e delle conclusioni rassegnate, la condotta di “radicale e sostanziale esautoramento” del lavoratore dalle sue mansioni, la quale è fonte di danno alla sfera patrimoniale e/o non patrimoniale del lavoratore ove ricollegabile eziologicamente all’inadempimento del datore di lavoro.”

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