Cassazione Civile: Infortunio in itinere con auto aziendale e responsabilità del datore di lavoro

La Suprema Corte, Sez. Lav., con la sentenza del 23 dicembre 2014 n. 27364 si è espressa sulle responsabilità in caso di utilizzo del mezzo aziendale ai sensi dell’articolo 2087 del codice civile

La Corte di Cassazione con questa sentenza ha affermato che “come noto l’art. 2087 c.c. costituisce una norma di chiusura del sistema antinfortunistico che fa obbligo al datore di lavoro di adottare sul luogo di lavoro tutte le misure idonee ad assicurare la tutela dell’integrità fisica e della personalità morale dei prestatori di lavoro, in relazione allo specifico tipo di attività esercitata, anche al di là delle particolari misure tassativamente imposte dalle varie leggi speciali sulla prevenzione degli infortuni.”

Infatti “la disposizione, nella sua onnicomprensività ed elasticità, è idonea ad assicurare adeguato presidio alla “integrità fisica” ed alla “personalità morale” del prestatore di lavoro, qualificando la condotta offensiva non in base al suo contenuto, ma in considerazione del bene protetto.
Il riferimento all’art. 2087 c.c. consente di qualificare il fenomeno come inadempimento contrattuale del datore di lavoro.”

Dunque “per consolidato orientamento di legittimità l’art. 2087 c.c. non configura una ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento (v., ex plurimis, tra le ultime, Cass. n. 2038 del 2013).
Pur sussistendo diversità di opinioni sulla necessità o meno che il lavoratore debba specificamente indicare le misure che avrebbero dovuto essere adottate in prevenzione (tra le altre, Cass. n. 8855 del 2013; n. 19826 del 2013; n. 4184 del 2006; n. 14469 del 2000, affermano tale esigenza, mentre la negano: Cass. n. 3788 del 2009; n. 21590 del 2008; n. 9856 del 2002; n. 1886 del 2000; n. 3234 del 1999), è invece assolutamente univoco l’insegnamento di questa Corte secondo il quale incombe sul lavoratore che lamenti di aver subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno, l’onere di provare l’esistenza di tale danno, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso di causalità tra l’una e l’altra, mentre spetta al datore di lavoro dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno (v., oltre tutte le sentenze testé citate, più risalenti: Cass. n. 10361 del 1997; n. 12661 del 1995; n. 11351 del 1993).”

In conclusione “allegare e provare la nocività dell’ambiente di lavoro significa che dalla fonte dell’obbligo altrui che il creditore di sicurezza invoca deve scaturire l’indicazione del comportamento che il debitore avrebbe dovuto tenere, nel senso che dalla descrizione del fatto materiale deve quanto meno potersi evincere una condotta del datore contraria o a misure di sicurezza espressamente imposte da una disposizione normativa che le individua concretamente ovvero a misure di sicurezza che, sebbene non individuate specificamente da una norma, siano comunque rinvenibili nel sistema dell’art. 2087 c.c..
In un ambito analogo in cui operano obblighi di protezione della persona umana come è il settore dei cd. contratti di spedalità, le Sezioni unite hanno ritenuto che “l’inadempimento rilevante nell’ambito dell’azione di responsabilità per risarcimento del danno nelle obbligazioni così dette di comportamento non è qualunque inadempimento, ma solo quello che costituisce causa (o concausa) efficiente del danno. Ciò comporta che l’allegazione del creditore non può attenere ad un inadempimento, qualunque esso sia, ma ad un inadempimento, per così dire, qualificato, e cioè astrattamente efficiente alla produzione del danno. Competerà al debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è proprio stato ovvero che, pur esistendo, non è stato nella fattispecie causa del danno” (Cass. SS.UU. n. 577 del 2008).”

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