Cassazione Penale, Sez. 4, 05 giugno 2025, n. 20947 – Caduta dall’alto del lavoratore. Annullamento della sentenza impugnata con rinvio per un nuovo giudizio nei confronti del datore di lavoro. Assolto il CSE.
La Corte di appello, in riforma della sentenza di primo grado che aveva assolto gli imputati dal reato loro ascritto per insussistenza del fatto, ha dichiarato gli imputati A e B civilmente responsabili dell’omicidio colposo in danno del lavoratore.
La contestazione mossa agli imputati – A nella qualità di datore di lavoro (legale rappresentante della società edile) e B in qualità di coordinatore per l’esecuzione dei lavori (CSE) – è quella di aver cagionato colposamente la morte del lavoratore, il quale, perdendo l’equilibrio mentre era intento a lavorare in una delle palazzine in costruzione ad un’altezza di circa m. 2,70 – per la realizzazione delle casseforme per le travi di orditura del penultimo solaio – precipitava nel vuoto e riportava lesioni gravi che ne determinavano il decesso.
Il Tribunale aveva assolto gli imputati dall’accusa, avendo accertato che il lavoratore, il giorno del fatto, discostandosi dalle disposizioni ricevute e dalla specifica formazione impartitagli, ed assumendo un’iniziativa non contemplata nel piano di lavoro di quella giornata, aveva dato causa all’evento, operando imprevedibilmente senza avvalersi dei dispositivi di sicurezza.
La Corte di appello invece, ritenendo che nel luogo ove era avvenuto l’infortunio i lavori fossero effettivamente in corso e riscontrando l’assenza di ponteggi per evitare cadute dall’alto, ha affermato la responsabilità del datore di lavoro e del CSE addebitando al primo l’omessa predisposizione di apposite strutture prevenzionali e al secondo l’omessa verifica in ordine all’applicazione da parte delle imprese operanti nel cantiere delle disposizioni contenute nel piano di sicurezza e coordinamento.
Avverso alla sentenza propongono distinti ricorsi per cassazione gli imputati.
I proposti ricorsi sono fondati, si annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti del CSE per non aver commesso il fatto e si annulla la medesima sentenza nei confronti del datore di lavoro che si rinvia, per nuovo giudizio, al giudice civile competente per valore in grado di appello.
Occorre infatti ribadire il principio enunciato da lungo tempo dalla giurisprudenza della Corte di cassazione (sin da Sez. 1, n. 1381 del 16/12/1994 -dep. 1995, Felice, Rv. 201487-01), secondo il quale la decisione del giudice di appello, che comporti totale riforma della sentenza di primo grado, impone la dimostrazione dell’incompletezza o della non correttezza ovvero dell’incoerenza delle relative argomentazioni, con rigorosa e penetrante analisi critica seguita da completa e convincente dimostrazione che, sovrapponendosi in toto a quella del primo giudice, dia ragione delle scelte operate e del privilegio accordato ad elementi di prova diversi o diversamente valutati. Inoltre, il giudice di appello, allorché prospetti ipotesi ricostruttive del fatto alternative a quelle ritenute dal giudice di prima istanza, non può limitarsi a formulare una mera possibilità, come esercitazione astratta del ragionamento, disancorata dalla realtà processuale, ma deve riferirsi a concreti elementi processualmente acquisiti, posti a fondamento di un iter logico che conduca, senza affermazioni apodittiche, a soluzioni divergenti da quelle prospettate da altro giudice di merito.
In buona sostanza, la totale riforma della sentenza di primo grado impone al giudice di appello di raffrontare il proprio decisum, non solo con le censure dell’appellante, ma anche con il giudizio espresso dal primo giudice, che si compone sia della ricostruzione del fatto che della valutazione complessiva degli elementi probatori, nel loro valore intrinseco e nelle connessioni tra essi esistenti.
Sul tema in disamina la giurisprudenza della Suprema Corte ha elaborato il concetto di “motivazione rafforzata”, per esprimere, con la forza semantica del lemma, il più intenso obbligo di diligenza richiesto al giudice di secondo grado nel caso di pronuncia di condanna in seguito ad assoluzione pronunciata dal primo giudice (Sez. 6, n. 10130 del 20/01/2015, Marsili, Rv. 262907-01; Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, Rv. 231679-01)
Si tratta di giurisprudenza che è andata successivamente sviluppandosi alla luce della lettura della innovazione introdotta nel 2006 (art. 5 legge 20 febbraio 2006, n. 46) con la modifica dell’art. 533 cod. proc. pen. e l’introduzione del canone dell'”al di là di ogni ragionevole dubbio”. Si ritiene che esso implichi che, in mancanza di elementi sopravvenuti, la valutazione peggiorativa compiuta nel processo d’appello sullo stesso materiale probatorio acquisito in primo grado, debba essere sorretta da argomenti dirimenti, tali da rendere evidente l’errore della sentenza assolutoria, la quale deve rivelarsi, rispetto a quella d’appello, non più razionalmente sostenibile, per essere stato del tutto fugato ogni ragionevole dubbio sull’affermazione di colpevolezza. Perché possa dirsi rispettato il canone dell’oltre ogni ragionevole dubbio non è, dunque, più sufficiente una mera diversa valutazione caratterizzata da pari o addirittura minore plausibilità rispetto a quella operata dal primo giudice, occorrendo invece una forza persuasiva superiore, tale da far cadere “ogni ragionevole dubbio”, in qualche modo intrinseco alla stessa situazione di contrasto. Ciò anche sulla scorta del principio secondo cui la condanna presuppone la certezza della colpevolezza, mentre l’assoluzione non presuppone la certezza dell’innocenza, ma la mera non certezza della colpevolezza (Sez. 6, n. 40159 del 03/11/2011, Galante, Rv. 251066-01).
Al suddetto orientamento giurisprudenziale in tema di “motivazione rafforzata” si è, poi, aggiunta l’elaborazione che, spostando l’analisi sulle ragioni istruttorie della diversa decisione di appello, ha statuito in ordine all’esigenza che, qualora l’overturning pregiudizievole per l’imputato si basi (anche) su una diversa valutazione di prove dichiarative decisive assunte dal primo giudice, incombe sul giudice di appello l’obbligo, prima di decidere, di rinnovare ex art. 603 cod. proc. pen. l’istruttoria dibattimentale, in maniera tale da poter apprezzare dalla viva voce dei dichiaranti, nel contraddittorio dibattimentale, il senso e la portata delle loro dichiarazioni.
La Corte territoriale nel caso in esame, in evidente violazione del comma 3-bis dell’art. 603 cod. proc. pen., a fronte di una sentenza di primo grado che aveva assolto gli imputati sulla base di una complessiva valutazione delle prove dichiarative ha riformato la sentenza assolutoria di primo grado senza procedere ad alcuna rinnovazione istruttoria e valutando diversamente le deposizioni rese dai testi.
Va aggiunto che non è stato neanche rispettato il principio, dianzi enunciato, della motivazione rafforzata, avendo la Corte territoriale offerto un percorso argomentativo carente e apodittico, sia con riferimento alla questione attinente alla prospettata iniziativa autonoma del lavoratore nell’esecuzione della lavorazione da cui è derivato l’infortunio, questione da cui dipende la valutazione sulla necessaria presenza o meno, nell’area di lavoro in disamina, del trabattello, con inevitabili ripercussioni sulla posizione di responsabilità degli imputati, e principalmente del datore di lavoro; sia con riguardo all’erroneo riferimento fatto dai giudicanti, quanto alla dinamica dell’infortunio, alla mancanza di ponteggi fissi, evidentemente irrilevanti nel caso di specie, trattandosi di incidente addebitato ai prevenuti in ragione della accertata assenza di un ponteggio (non fisso ma) mobile.
La motivazione della sentenza impugnata appare quindi illogica, contraddittoria ed erronea in diritto con particolare riferimento alla posizione del CSE, essendo stata attribuita a tale figura una posizione di responsabilità incompatibile con la relativa posizione di garanzia desumibile dalla normativa antinfortunistica ed eccentrica rispetto a quanto concretamente accertato.
La motivazione è anche contraddittoria là dove afferma il noto principio per cui al CSE sono attribuite prevalentemente funzioni di alta vigilanza, che si esplicano prevalentemente mediante procedure e non poteri-doveri di intervento immediato, attinenti alla generale configurazione delle lavorazioni che comportino un rischio interferenziale, mentre non rientrano fra i suoi compiti il puntuale controllo delle singole lavorazioni, demandato ad altre figure (datore di lavoro, dirigente, preposto) (cfr., fra le tante, Sez. 4, n. 24915 del 10/06/2021, Paletti, Rv. 281489 – 01); dall’altra, gli imputa l’omesso controllo di una lavorazione comportante un rischio specifico dell’impresa, fra l’altro in presenza del capocantiere/preposto (G.G.) cui era demandato il controllo delle lavorazioni, quindi in assenza di una situazione di rischio interferenziale e, comunque, senza offrire alcuna argomentazione tesa a dimostrare che il CSE fosse a conoscenza della lavorazione messa in atto dal lavoratore infortunato e avesse avuto la possibilità di intervenire in presenza di una situazione di pericolo grave e imminente, direttamente riscontrato ed immediatamente percettibile.
Tali considerazioni impongono l’annullamento della sentenza impugnata: senza rinvio, per non aver commesso il fatto, nei confronti di B, stante l’evidente estraneità del CSE all’incidente mortale per cui si procede; con rinvio nei confronti di A, la cui posizione di responsabilità quale parte datoriale del lavoratore deceduto dovrà essere adeguatamente vagliata dal giudice civile competente per valore in grado di appello.
Fonte: Olympus.uniurb