Cassazione Penale: operazioni di potatura in quota e infortunio mortale del lavoratore

Cassazione Penale, Sez. 4, 13 giugno 2023, n. 25327 – Infortunio mortale del lavoratore che pota un albero in piedi sulla biforcazione del tronco. Responsabilità del datore di lavoro.

 

La Corte d’Appello, in parziale riforma della sentenza del Tribunale, ha riconosciuto la circostanza attenuante di cui all’art. 62 n. 6 c.p. e ha condannato il legale rappresentante e datore di lavoro in ordine al delitto di cui all’art. 589, comma 2, c.p. in danno del dipendente della cooperativa agricola.
Il processo ha ad oggetto un infortunio sul lavoro descritto nel modo seguente: il dipendente dell’imputato stava effettuando lavori di potatura di un albero ad un’altezza di circa tre metri con una motosega, stando in piedi su una superficie irregolare offerta dalla biforcazione del tronco, senza essere vincolato in alcun modo, quando era caduto e si era procurato un politrauma in conseguenza del quale era deceduto.
Quale addebito di colpa nei confronti dell’imputato erano stati individuati la negligenza, l’imprudenza e l’imperizia e la violazione del D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, art. 18, comma 1, lett. f) per aver consentito al lavoratore di effettuare operazioni di potatura ad una quota superiore ai due metri, senza l’ausilio di dispositivi di protezione individuale o cautele idonee a impedire la caduta dall’alto.
Avverso la sentenza ha proposto ricorso l’imputato.

Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
La tesi sostenuta nel ricorso si fonda sull’assunto per cui il lavoratore deceduto avrebbe operato in altezza agendo di sua iniziativa, con una condotta, imprevedibile ex ante da parte del datore di lavoro: da tale assunto il ricorrente fa discendere la conseguenza che la condotta del lavoratore era stata abnorme ed aveva, pertanto, attivato un rischio eccentrico rispetto a quelli governati dal datore di lavoro in relazione alla sua posizione di garanzia. Entrambi gli assunti sono manifestamente infondati.
I giudici di merito con motivazione coerente con i dati di fatto riportati, esaustiva e non illogica hanno spiegato che il lavoratore era incorso nell’infortunio nello svolgimento delle mansioni a lui affidate e che l’iniziativa assunta era conforme all’incarico ricevuto e finalizzata all’adempimento di tale incarico, sicchè non vi era spazio alcuno per la qualificazione della sua condotta come abnorme.
In particolare il Tribunale ha, a tale fine, evidenziato che nella visura camerale della cooperativa tra le attività costituenti l’oggetto sociale erano indicati anche “i lavori di sistemazione e manutenzione idraulico-forestale, bonifica e miglioramento dei terreni, opere di forestazione”; che nel Documento di valutazione dei rischi si faceva riferimento alla gestione di appalti di forestazione da Comunità Montane e Provincia aventi ad oggetto “pulizia di bosco, diradamenti e potature con utilizzo di motoseghe”; che ai dipendenti erano state consegnate schede di formazione relative alle corrette modalità di effettuazione di operazioni di taglio e abbattimento alberi, istruzioni per l’uso di scale portatili e motoseghe e indicazioni relative alle protezioni specifiche per lo svolgimento di attività forestali. Anche a volere prestare fede alla tesi difensiva – ha proseguito il Tribunale, una volta ritenuta la condotta del lavoratore funzionale e finalizzata all’obiettivo affidatogli dalla Cooperativa, il datore di lavoro avrebbe dovuto, comunque, provvedere a prevenire i rischi a cui il dipendente poteva andare incontro nello svolgimento dell’attività, adottando misure oggettivamente idonee a ridurre al minimo la possibilità di incidenti causati da imprudenze degli operatori e consistenti nel fornire i dispositivi di protezione e le attrezzature necessarie.
La Corte di Appello ha, anch’essa, richiamato tutti i dati documentali su indicati e condiviso le valutazioni tratte da tali dati, concludendo che il lavoratore aveva agito nell’ambito delle mansioni a lui affidate e che, in ogni caso, il sistema di prevenzione mira a tutelare il lavoratore anche in relazione ad incidenti che possono derivare da sua negligenza, imprudenza e imperizia, sicchè il datore di lavoro è, comunque, gravato da un onere di controllo dell’effettivo rispetto anche da parte del lavoratore negligente delle prescrizioni antinfortunistiche.

Anche il secondo motivo, con cui si censura la riconducibilità dell’infortunio all’area di rischio governata dal datore di lavoro, è manifestamente infondato.
Le sentenze di merito hanno individuato il ricorrente come responsabile del decesso del lavoratore dipendente, infatti in qualità di datore di lavoro era tenuto a garantire la sicurezza dei lavoratori, a fronte di un’attività che presentava rischi specifici e oggettivi caratteri di pericolosità, per la necessità di tagliare rami sporgenti ad altezza di oltre due metri dal suolo, e, pertanto, a fornire dispositivi di protezione e attrezzature idonee al tipo di attività (prima fra tutte la piattaforma elevabile) e a fare in modo che i lavoratori si attenessero alle disposizioni di sicurezza. Il datore di lavoro era chiamato in prima persona a governare i rischi connessi all’attività oggetto della impresa, in quanto non aveva rilasciato alcuna delega di funzioni e posto che tutte le violazioni cautelari addebitate all’imputato ineriscono alla tipica funzione datoriale, così come disegnata dalla normativa prevenzionistica, e all’area di rischio governata dal datore di lavoro.

Fonte: Olympus.uniurb

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