Il Vallese era una delle regioni più povere della Svizzera ma, essendo ricco di ghiacciai, era il luogo ideale per la produzione di energia idroelettrica (su cui si puntava allora) e, dunque, per attirare manodopera. “Questa catastrofe – spiega Toni Ricciardi – unì nord e sud dell’Italia: il maggior numero di vittime italiane, infatti, proveniva dalla provincia di Belluno seguita dal comune di San Giovanni in Calabria, gli altri da diverse regioni del nostro Paese”. Con loro persero la vita, 23 svizzeri, quattro spagnoli, due tedeschi, due austriaci e un apolide. Le baracche in cui vivevano, le officine e la mensa erano state costruite alle pendici del ghiacciaio per risparmiare sui costi di trasporto, nonostante nel corso dei lavori -iniziati nel ’60 e terminati con l’inaugurazione della diga nel ’69- il ghiacciaio avesse ripetutamente dato cenni di cedimento, con il verificarsi di valanghe e incidenti.
Le condizioni di lavoro e di vita nel cantiere erano durissime. Circa quindici, sedici ore al giorno invece delle undici previste dai contratti, turni anche di domenica -nel ’64 erano stati anche incentivati gli straordinari per ultimare più velocemente i lavori, come risulta dagli archivi- una situazione igienica precaria, con pochissimi bagni per molte persone, senza acqua calda e temperature rigidissime. Il racconto fotografa un esempio di vita da emigrante in Svizzera, sullo sfondo storico dell’epoca: negli anni dal ‘58 al ’76, infatti, circa il 50% del flusso migratorio italiano era orientato verso lo Stato elvetico. Una realtà che portò nel ’61 l’allora ministro del Lavoro Sullo “a proporre, senza successo, l’equiparazione del trattamento assicurativo tra lavoratori svizzeri e italiani” aggiunge Ricciardi.
La diga, oggi funzionante, arrivò nel corso dei lavori di costruzione a impiegare oltre mille lavoratori. La sicurezza all’interno del cantiere, però, non era una priorità. A tal punto che, nel piano annuale di gestione delle slavine, si fornivano indicazioni su come ripulire le strade e far ripartire l’attività nel minor tempo possibile e nel modo più efficiente, mentre i rischi per le baracche e le officine non erano neppure menzionati. Del resto, come emerge dalle testimonianze, i lavoratori stessi, nella maggior parte dei casi, non avevano una chiara percezione dei rischi che correvano. “Nel ’69, in una classifica stilata dall’Organizzazione internazionale del lavoro – Ilo, la Svizzera è il paese dell’Europa occidentale con il più alto numero di morti bianche” rileva lo storico.
Nonostante le evidenti negligenze e la mancanza di misure di prevenzione, il processo approderà -solamente nel ’72- a una sentenza di assoluzione in primo grado di tutti gli imputati, poi confermata in appello. A prevalere fu la tesi della “catastrofe naturale” e i familiari delle vittime furono condannati a pagare parte delle spese processuali. “Il processo va contestualizzato nel momento storico, allora condannare gli imputati avrebbe significato condannare un sistema e un Paese”, sottolinea Ricciardi.
La Fondazione Mattmark, però, erogò più di 4,5 milioni di franchi in contribuiti e indennità ai familiari delle vittime e la Suva oltre 60.