La tutela per i disabili si estende a chi li accudisce.

Lo prevede la Sentenza della Corte (Grande Sezione) 17 luglio 2008-“Politica sociale – Direttiva 2000/78/CE – Parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro-Artt. 1,2, nn.1,2, lett.a) e 3, nonché 3, n. 1 lett.c) – Discriminazione diretta fondata sulla disabilità-Molestie motivate dalla disabilità – Licenziamento di un lavoratore che non sia esso stesso disabile, ma con un figlio disabile – Inclusione – Onere della prova”.

Questa la vicenda che ha portato la Corte di giustizia europea alla Sentenza (vedi link) del 17 luglio 2008.

Una lavoratrice inglese viene licenziata perché il suo impegno per il figlio disabile la rende meno efficiente di quanto non sia necessario al suo datore di lavoro. La signora si rivolge a un Tribunale il quale, a sua volta, chiede alla suprema magistratura europea di stabilire se la direttiva europea che tutela i disabili (direttiva 2000/78/CE) sia da interpretare in senso restrittivo o si estenda, per esempio, alle persone che li accudiscono.

La Corte rileva che se la Direttiva 2000/78/CE contiene disposizioni volte a tener conto specificatamente delle esigenze dei disabili, ciò non permette di concludere che il principio della parità di trattamento in essa sancito debba essere interpretato in senso restrittivo, vale a dire nel senso che esso vieterebbe soltanto le discriminazioni dirette fondate sulla disabilità e riguarderebbe esclusivamente le persone che siano esse stesse disabili.
Insomma, la tutela per i disabili si estende anche a chi li accudisce.

La Corte dichiara che la direttiva deve essere interpretata nel senso che il di vieto di discriminazione diretta ivi previsto non è limitato alle sole persone disabili. Di conseguenza, qualora un datore di lavoro tratti un lavoratore, che non sia esso stesso disabile, in modo meno favorevole rispetto ad un altro lavoratore in una situazione analoga, e sia provato che il trattamento sfavorevole di cui tle lavoratore è vittima è causato dalla disabilità del figlio, al quale egli presta la parte essenziale delle cure di cui quest’ultimo ha bisogno, un siffatto trattamento viola il di vieto di discriminazione diretta enunciato nella direttiva. Riguardo alle molestie, la Corte adotta un ragionamento identico e conclude nel senso che le disposizioni della direttiva in ordine a tale punto non sono limitate alle sole persone che siano esse stesse disabili.

Qualora sia accertato che il comportamento indesiderato integrante le molestie del quale è vittima un lavoratore in una situazione come quella della signora Coleman è con nesso alla disabilità del figlio, un siffatto comportamento viola il divieto di molestie enunciato nella direttiva.

La signora Coleman ha lavorato dal gennaio 2001 in uno studio legale a Londra come segretaria. Nel 2002 ha avuto un figlio, disabile, le cui condizioni di salute esigono cure specializzate e particolari, fornite essenzialmente dall’interessata. Il 4 marzo 2005 la signora Coleman ha accettato di rassegnare le proprie dimissioni, con conseguente risoluzione del contratto con il suo ex datore di lavoro. Il 30 agosto 2005 ella proponeva dinanzi all’Enployment Tribunal, London South, un ricorso nel quale sosteneva di essere stata vittima di un licenziamento implicito e di un trattamento meno favorevole rispetto a quello riservato agli altri lavoratori in ragione del fatto di avere un figlio disabile principalmente a suo carico. Ella sostiene che tale trattamento l’ha costretta a smettere di lavorare per il suo ex datore di lavoro.

A sostegno della sua domanda adduce diversi fatti configuranti, a suo parere, discriminazione o molestie, in quanto in circostanze analoghe i genitori di bambini non disabili venivano trattati in maniera diversa. Ella cita, in particolare, il rifiuto del suo datore di lavoro di reintegrarla, al ritorno dal congedo per maternità, nel posto di lavoro da lei occupato, il rifiuto di concedere una flessibilità nell’orario di lavoro e commenti sconvenienti e ingiuriosi espressi sia nei confronti suoi sia nei confronti di suo figlio. Pertanto l’E.T. si è rivolto alla Corte chiedendo se la direttiva sulla parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro debba essere interpretata nel senso che essa vieta la discriminazione diretta fondata sulla disabilità del figlio, cui ella presta la parte essenziale delle cure che le sue condizioni richiedono.

(LG-FF)

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