Donne in pensione a 65 anni anche senza chiederlo.

In base alla Sentenza della Corte Costituzionale n. 275 del 2009 è illegittimo prevedere che la lavoratrice in una società privata debba comunicare almeno tre mesi prima l’intenzione di proseguire il rapporto di lavoro oltre i 60 anni pena la perdita di questo diritto.

La corte Costituzionale, con un Sentenza depositata il 29 ottobre scorso, ha deciso di eliminare una delle ultime differenze contrattuali tra lavoro femminile e maschile.

La comunicazione – prevista dall’articolo 30 del decreto legislativo 198 del 2006 – pone sostanzialmente un onere irragionevole a carico della lavoratrice condizionando – si legge nella sentenza – il diritto di quest’ultima a lavorare fino al compimento della stessa età prevista per il lavoratore ad un adempimento – e, dunque, a un possibile rischio –che, nei fatti non è previsto per l’uomo e compromettendo ed indebolendo la piena ed effettiva realizzazione del principio di parità tra l’uomo e la donna, in violazione dell’articolo 3 della Costituzione, non avendo la detta opzione alcuna ragionevole giustificazione, e dell’articolo 37, risultando nuovamente leso il principio della parità uomo-donna in materia di lavoro.

La storia che stà dietro questa decisione è eloquente. La questione di legittimità era stata sollevata dal Tribunale di Milano chiamato a giudicare il caso di una lavoratrice, Caterina G., licenziata il 9 maggio 2007 per avere raggiunto l’età pensionabile, senza anticipatamente manifestare la propria intenzione di volere proseguire nel rapporto di lavoro.

Il giudice milanese ricorda che la Corte Costituzionale aveva dichiarato dapprima l’illegittimità costituzionale dell’articolo 11 della legge numero 604 del 1966 e di altre disposizioni connesse (sentenza 137 del 1986) “nella parte in cui prevedono il conseguimento della pensione di vecchiaia e, quindi, il licenziamento della donna lavoratrice per questo motivo, al compimento del cinquantacinquesimo anno d’età, anziché al compimento del sessantesimo anno come per l’uomo”, giudicando ormai venute meno quelle ragioni e condizioni che in precedenza potevano giustificare una differenza di trattamento della donna rispetto all’uomo, e, di riflesso, illegittima qualsiasi disposizione che differenziasse l’applicazione dei diritti di tutela del posto di lavoro alla condizione di essere lavoratore uomo, ovvero lavoratrice donna. In seguito, anche l’onere, introdotto dall’articolo 4 della legge 9 dicembre 1977, numero 903 (Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro), di comunicare anticipatamente al datore di lavoro la propria intenzione di proseguire a lavorare fino agli stessi limiti di età fissati per gli uomini, era stato parimenti dichiarato incostituzionale.

Invece, non si capisce perché, il Parlamento aveva introdotto la comunicazione nel 2006, con l’articolo 30 del decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198 cioè il cosiddetto Codice delle pari opportunità tra uomo e donna. E il Tribunale milanese ha detto di dubitare “che la pura constata esistenza di una normativa di carattere previdenziale più favorevole per le donne, possa essere tale da giustificare una tutela differenziata in materia di licenziamenti”.

I giudici della Consulta sono stati d’accordo osservando che la reintroduzione della disposizione nel subordinare il riconoscimento della tutela contro il licenziamento ingiustificato rispetto di un onere di comunicazione perfettamente coincidente con quello già dichiarato illegittimo da questa Corte, realizza la medesima discriminazione tra lavoro maschile e lavoro femminile già stigmatizzata in tale occasione. E per questo va eliminata.

(LG-FF)

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