Il Tribunale di Perugia, infatti, quale giudice di appello cautelare, aveva accolto lappello del Pubblico Ministero presso il Tribunale di Terni contro lordinanza con la quale il Gip del medesimo aveva rigettato la richiesta della misura cautelare dellinterdizione temporanea dallesercizio dellattività di direttore generale dellazienda, di presidente di aziende private, municipalizzate o capitale misto, nei confronti del direttore generale di unazienda accusato di condotta configurante mobbing in ambiente lavorativo in merito a fatti verificatisi presso lazienda municipalizzata per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani, consistente in una serie di attività messe in atto dai vertici aziendali dirette a conseguire lacquiescenza dei lavoratori, in particolare presso il termovalorizzatore, alle carenze degli impianti di sicurezza e di prevenzione degli infortuni, sottoponendo i lavoratori a ripetuti provvedimenti di dequalificazione delle rispettive mansioni e a minacce di sanzioni disciplinari ingiustificate.
Per tale motivo il Pubblico Ministero presso il Tribunale di Terni aveva contestato al direttore generale dellazienda i reati continuati di maltrattamenti, abuso dufficio, lesioni personali, violenza privata ed omissione dolosa di cautele antinfortunistiche. Il Gip aveva però respinto per ben due volte listanza del Pubblico Ministero, e questultimo aveva proposto appello al Tribunale di Perugina. Il Tribunale di Perugina aveva accolto lappello del Pubblico Ministero applicando allindagato la misura interdittiva del divieto di esercitare per due mesi lattività lattività di direttore generale e di presidente di aziende private, municipalizzate o a capitale misto.
Il Giudice dellappello aveva infatti ritenuto sussistenti gravi indizi di colpevolezza in ordine ai reati ascritti di maltrattamenti, lesioni personali e violenza privata sulla base dei numerosi elementi probabatori raccolti nel corso dellindagine, ravvisando inoltre la sussistenza di esigenze cautelari in relazione al pericolo di prosecuzione dellattività criminosa e di inquinamento delle prove. Contro la Sentenza di appello limputato ha proposto ricorso in Cassazione, sostenendo lirrilevanza penale dei fatti, in quanto il direttore generale avrebbe applicato un corretta dello jus corrigendi che è riconosciuto anche al datore di lavoro, e quindi si sarebbe trattato di un atto dovuto.
La Suprema Corte, respingendo il ricorso e confermando la condanna, ha invece affermato che la condotta vessatoria integrante mobbing non è esclusa dalla legittimità delle iniziative disciplinari disciplinare assunte nei confronti dei dipendenti mobbizzati.
La Sentenza come ha affermato Roberto Codini commentando la sentenza stessa apre uno spiraglio importante nella tutela del mobbing, più volte configurato anche alla stessa Corte di Cassazione come oggetto di tutela solo in sede civile e non penale, delineando la possibilità che, in attesa di una legge in materia, la condotta mobbizzante possa essere considerata un vero e proprio reato.
(LG-FF)